Intervista a Elena Marinelli
Chiacchierata con l’autrice di Steffi Graf. Passione e perfezione
Elena Marinelli è una scrittrice molisana – ma trapiantata a Milano – con la passione per il tennis. Scrive per L’Ultimo Uomo e cura il podcast Volée – Un podcast sul tennis, oltre ad avere un suo personale ricco blog. Nel 2015 ha pubblicato con Baldini+Castoldi il suo romanzo d’esordio Il terzo incomodo. È di pochi mesi fa invece il suo libro Steffi Graf. Passione e perfezione, edito da 66thand2nd, su cui si concentra la nostra intervista.
Dal libro emerge come Steffi Graf sia una sportiva a cui sei particolarmente affezionata. Che tipo di lavoro hai dovuto fare per raccontarla ai lettori? Per te che ruolo ha avuto Steffi?
«Seguivo molto il calcio maschile, ma con la coda dell’occhio e quasi solo partite della Nazionale. Avrei voluto giocare a calcio, ma per una ragazza in Molise agli inizi degli anni Novanta era impossibile. Avevo qualità da centrocampista difensivo, secondo me, ma non lo sapremo mai. Avevo undici anni, tifavo il calcio maschile, imparavo ogni domenica a guardarlo e conoscerlo, ma la verità è che era l’unico a cui avevo accesso e non era abbastanza. In quel momento è arrivato il tennis. O meglio: è arrivata Steffi Graf, la prima sportiva a catalizzare la mia attenzione, a rispondere a una necessità che avevo. Nel libro lo racconto, a un certo punto: è stata la sportiva che mi ha aperto le porte del tennis, e nel nostro incontro in differita – ho guardato su una videocassetta parte di una sua partita del 1988 senza sapere niente delle vittorie, del Golden Slam e del resto – ho trovato quello che andavo cercando: una storia che potesse essere la mia fino in fondo, senza dovermi accontentare delle storie dei maschi. Quando mi sono trovata a poter scegliere di chi raccontare non ho avuto dubbi».
«Inoltre, conoscendola con il tempo e ritrovandola a ritroso, ho scoperto che la sua carriera è un romanzo di formazione e a me piacciono particolarmente le storie di formazione».
Dovessi descrivere Steffi in 3 momenti fondamentali sul campo da gioco quali indicheresti e perché?
«Il primo è la reazione per aver vinto in soli trentadue minuti la finale del Roland Garros 1988 contro Natasha Zvereva, perché nel disappunto c’è la sua necessità di onorare sempre al meglio il tennis, ogni partita, di guadagnarsi la vittoria in modo completo, senza lasciare spazio a dubbi; poi, mi viene in mente l’ultimo punto durante la finale dello US Open del 1988, quando realizza il Grande Slam: non è il punto migliore della sua carriera, evidentemente, ma è quello imprescindibile per scrivere la sua storia. Da lì in avanti non sarà mai più come prima».
«Infine, sceglierei la finale del Roland Garros del 1999, l’ultimo Slam, l’ultima gioia fortissima, l’ultima luce del suo gioco e di quella partita sceglierei però il momento in cui alza il trofeo, in cui prima fa il gesto canonico, ma poi si involve su sé stessa, si accartoccia quasi, stringe il trofeo al petto in una soddisfazione infantile e che non tiene conto di niente altro se non della sua felicità. Non l’avevamo mai vista fare così, ma è quello il momento in cui è palese il fatto che era cambiato tutto: non doveva per forza pensare al torneo dopo, non doveva cercare necessariamente le sbavature, poteva godersi il momento di pura gioia».
Come ti è venuta in mente la scelta, a mio modo di vedere molto efficace, di realizzare i ritratti delle varie avversarie di Steffi con un mix di vero e verosimile?
«È stata una scelta di scrittura e di modo di entrare nella storia. La verosimiglianza è un impegno che ho preso nei confronti di Steffi Graf, in prima istanza. Non ho potuto farle domande, ma ho potuto documentarmi in modo più capillare possibile su come la descrivevano gli altri – giornalisti, commentatori, media in generale – su come la vedevano le avversarie – con interviste soprattutto – e su come si raccontava».
«Questo contesto mi ha aiutato a definire i contorni di verosimiglianza per gli eventi che avevano bisogno di uno spazio, invece, più narrativo. Questa è una biografia narrativa e c’è un racconto che arriva dal mio punto di vista: è sicuramente partigiano, ma tenta anche di colmare i vuoti, e sono molto felice che risulti verosimile».
«Due esempi, su tutti: Steffi che da piccola gioca con Peter nel seminterrato è un fatto risaputo. Io ci ho costruito attorno una casa, delle mura, un gioco di bambina, una madre che la osserva da lontano e una necessità di gioco infantile, che è il motore narrativo dell’intera storia. Oppure: Monica Seles racconta nella sua autobiografia che suo padre le ha comprato la prima racchetta in Italia, lo prendiamo per vero e io ho costruito gli spazi del negozio e ho dato dei connotati al proprietario che nel libro si chiama Giorgio, ma non esiste nella realtà».
Va bene l’amore per la Graf, ma l’appassionata Elena Marinelli nel tennis femminile ha mai provato qualcosa di simile con altre atlete?
«Considero Serena Williams una sorella, oramai. L’ho vista nascere sui campi, abbiamo un anno di differenza. Sportivamente, ho raccolto tutta la sua carriera passo dopo passo e per lei provo affetto quasi, ma all’inizio è stata una scoperta. Vinse contro Steffi Graf in finale a Indian Wells nel 1999 a meno di diciotto anni, con le treccine e le perline tra le treccine, in quel modo di giocare diverso e con un approccio tutto suo. Era effervescente, esuberante, non avevamo mai visto una Serena Williams prima e sono rimasta colpita dalla sua bravura certo, ma anche da quel qualcosa che non si riusciva ancora a nominare, ma era palese».
«Alla premiazione sul campo ha chiamato Steffi Graf «signora Graf» con una deferenza che mai avrei pensato, guardandola da troppo lontano. E quella sua ambivalenza, il fatto che per anni è stata «la sorella meno brava» anche se non era corretto me l’ha fatta avvicinare moltissimo. Non è Steffi Graf, nessuno può essere come lei, semplicemente perché è stata la prima, ma con Serena Williams farei quattro chiacchiere volentieri».
A rischio di apparire stucchevole e di cadere nella logica del «come sarebbe andata se», quanto ha inciso l’aggressione a Monica Seles nel prosieguo della carriera della Graf a tuo modo di vedere?
«Da un punto di vista tennistico, questa domanda presuppone uno strumento che non ho: la DeLorean di Doc, per tornare indietro e vedere cosa sarebbe accaduto. Da un punto di vista emotivo, invece, ha inciso molto, perché da quel momento in avanti il rapporto con il tennis di Steffi Graf è cambiato. Ha continuato a vincere, ma si è liberata di una serie di impedimenti, nel suo modo di porsi, di rendersi o meno piacevole agli occhi del pubblico, nel riconoscersi come sportiva che non aveva niente da dimostrare, in fondo».
Questa tua descrizione delicata e tenera di alcuni aspetti emotivi della Graf ci offre il ritratto di una sportiva umana e non solo di una perfetta macchina da trofei. Che obiettivo ha questo libro?
«Non so se si può chiamare obiettivo, o meglio: non è stato per me un obiettivo. Più che altro era l’intenzione narrativa: la storia affascinante è quella della sportiva dei chiaroscuri, facilmente apostrofata in pochi e usuali modi, ma che secondo me ha molto altro da svelare».
Il 1988 è l’apice della carriera della Graf in termini di palmarès, ma anche una condanna a dover vincere sempre per certi versi. Rimettendo assieme i tuoi personali ricordi e approcciandoti al soggetto protagonista con occhio critico, dove pensi che trovi pace Steffi Graf? Qual è la sua Itaca?
«Qualche giorno fa Stefanie Graf – da quando non gioca più è solo Stefanie – e Andre Agassi hanno rilasciato un’intervista in cui a lei viene chiesto della sua carriera sotto diversi aspetti. Mi ha colpito una cosa che ha detto, riguardo al dietro le quinte della carriera e le sue parole più o meno sono state: «Ci sono stati alti e bassi, nessuno vedeva la sofferenza».
«Mi ha colpito perché è un aspetto che si può immaginare ma spesso viene poco considerato e invece per gli sportivi e per i tennisti un particolare è un aspetto cruciale. Per questo, non credo che ci si sia mai stata un’Itaca per lei. Steffi non è mai tornata a casa, è sempre andata avanti e a un certo punto ha cambiato strada, è diventata solo Stefanie, e ha cambiato la sua vita. Ha giocato finché ha perso la passione per il gioco e l’interesse per i tornei: quando se ne è accorta, ha lasciato subito, senza trascinarsi. Non è arrivata da nessuna parte, non ha chiuso cerchi, o altro del genere. Semplicemente, ha guardato in faccia alle aspettative, al tennis, alla sua storia e alla sua voglia e ha capito che era tutto finito. È stato un grande amore che è finito».
66thand2nd, L’Ultimo Uomo e Volée sono esempi a mio modo di vedere virtuosi di dare un qualcosa di più al modo di comunicare lo sport. A tuo parere che ruolo può avere la letteratura sportiva al giorno d’oggi?
«Grazie per aver messo insieme un podcast piccolissimo con un editore e una rivista che raccontano lo sport da anni. In Italia, 66thand2nd e L’Ultimo Uomo declinano due modi di guardare alla letteratura sportiva e darle voce. La letteratura sportiva (nel senso che ha come tema lo sport, ma possiamo togliere la qualifica e il ragionamento non cambia) è uno dei modi di raccontare la società, come ogni altro tipo di letteratura. Osvaldo Soriano diceva: «Non amo lavorare troppo, né correre per i corridoi di uno stadio, né forse capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe. Ma so inventare storie bellissime». Questo è un modo possibile di riferirsi alla letteratura sportiva uno dei più grandi e personalmente uno dei miei preferiti, perché pone l’accento su uno scopo semplice: il piacere del racconto».
Se ti chiedessi di giustificare il titolo del tuo libro: dove si vedono “passione” e “perfezione” in Steffi?
«In tutto ciò che ha fatto sul campo, direi, partendo dalla passione per il gioco, arrivando alla volontà di migliorarsi e di abbracciare la perfezione. Inoltre, mi sembrano due parole che dicono meglio di altre come si vedeva lei stessa – piena di passione per il tennis – e come la vedevano gli altri – una macchina perfetta – e io ho cercato di fare i conti con entrambe le prospettive. Spero si capisca da quale parte sto».
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Titolo: Steffi Graf. Passione e perfezione
Autore: Elena Marinelli
Editore: 66thand2nd
Anno: 2020
Pagine: 236