Storia di Allen Iverson, il ribelle della NBA

Il mondo e la narrativa sono pieni di storie di rivincita. Persone e personaggi che hanno avuto la forza, l’intelligenza o il talento per ribaltare le ingiustizie che gli erano piovute in testa. Ma c’è anche chi non è mai riuscito a eliminare lo stigma del suo primo vagito nel posto e nel momento sbagliato; chi, nonostante tutto (anche i successi), ha sempre e solo sfiorato le stelle restando nella stalla. Allen Iverson è uno di questi. Un iconico antieroe che ha saputo scrivere la storia del basket e di un’epoca, senza però riuscire a raccoglierne i frutti. E Not a game (66thand2nd, pp. 336, 2020) è il libro che racconta la parabola di Iverson, il viaggio della sua vita dalla sua nascita al 2015. Scritto dal giornalista sportivo del Washington Post Kent Babb, è l’evoluzione di un longform che Babb aveva scritto per il giornale e il risultato di un lavoro di ricerca, analisi e passione eccelso.

«We talkin’ about practice, man. Not a game».

Già il titolo di quest’opera (fortunatamente e saggiamente lasciato in lingua originale dall’editore) è tutto un programma. Not a game, “non una partita”, frase ripresa dall’indimenticabile conferenza stampa che Iverson rilasciò nel 2002, quando i suoi Sixers erano stati eliminati ai playoff e il fuoriclasse della palla a spicchi si trovò, molto probabilmente ubriaco, davanti ai giornalisti. «We talkin’ about practice, man. Not a game», ovvero: «Stiamo parlando di un allenamento, amico. Non di una partita». Lo ripeté all’infinito. Babb calcola che Iverson disse la parola «practice», allenamento, ben 22 volte in un minuto circa. La litania di un uomo sull’orlo del baratro che nessuno voleva vedere, il riassunto della carriera e della vita di Iverson, per il quale gli allenamenti non erano altro che un noioso, inutile break tra una partita e l’altra. Lui era (è ancora?) uomo di fiammate, di vette inarrivabili dalla durata d’un istante. O di una partita.

La famosa conferenza stampa «We talkin’ about practice, man».

Un viaggio in Allen Iverson.

Il libro di Babb ha proprio la forza di mettere in luce la meraviglia sportiva di Iverson e il suo negativo, ovvero la vita dissoluta, l’incapacità di crescere e di dimenticare la sue radici, saldamente piantate nella povertà, nei ricordi di quando bambino faceva da mini-corriere della droga per la madre. Lui, frutto di un errore («Primo amore, primo bacio, prima scopata. Tutto in una volta») di una quindicenne, non voluto e poi cresciuto alla giornata. La conferenza stampa del 2002 è diventata iconica, ancora oggi ispiratrice di meme e battute. Iverson stesso, negli anni, l’ha trasformata in una battuta da film, ma di quelle un po’ tristi che gli attori imbolsiti ripetono all’infinito per ricordare a tutti chi furono, mettendo invece soltanto in luce chi non sono più. Babb ha il grande pregio di accompagnarci in questo viaggio in Allen Iverson, più che con Allen Iverson.

Scrittura in purezza.

Proprio la scrittura dell’autore (perfettamente resa dalla traduzione di Lorenzo Vetta) è uno dei grandi, anzi enormi pregi di Not a game. Abituati come siamo allo storytelling moderno nostrano, fatto di voli pindarici narrativi, di orpelli poetici messi in prosa, Babb ci riporta alla purezza. In pieno stile anglosassone, accantona sé e l’egocentrismo della sua penna utilizzando un linguaggio asciutto, in purezza. Questo permette che a parlare sia semplicemente la storia. E Babb può farlo perché dietro a questo libro ci sono anni di studio e di ricerca: oltre seicento fogli di carte processuali analizzati, più di cento persone ascoltate e intervistate, migliaia di minuti di video osservati, altrettanti articoli letti. È un collage di materiale che Babb ha preso, ribaltato, studiato, scomposto e ricomposto in una serie di capitoli che seguono sì una linea cronologica, ma anche una linea narrativa che rasenta la perfezione.

Le dieci migliori giocate di Iverson.

Le ombre dietro la luce.

Eppure, leggendo Not a game, tutto questo non si vede. È solo alla fine, nei ringraziamenti dell’autore (incredibilmente, bellissimi anche quelli), che si scopre cosa c’è dietro a un libro del genere. Babb è bravissimo a portarci dentro senza fare pesare la mole di informazioni che fornisce su uno dei personaggi più controversi del basket americano (e ce ne sono di personaggi strani, là…). In 336 pagine si scopre tutto: dalle origini del soprannome di Iverson, “The Answer” (la risposta), al suo ruolo nell’Olimpo dell’Nba; dalla manica diventata un simbolo alle iconiche treccine. Ma ci sono soprattutto le ombre del mitico numero 3 dei Sixers. Quelle che per anni si nascondevano dietro alle partite stellari e alle prestazioni folli, che tanti non volevano vedere perché era troppo bella la favola di quel mingherlino (183 cm per neppure 80 kg) in grado di perculare coi suoi crossover colossi di ogni tipo.

Sull’orlo del baratro.

Leggendo Not a game si provano disagio, fastidio, a tratti repulsione e a tratti un affetto profondo e inspiegabile per Iverson. Se ne vedono tutti i limiti di uomo a cui è stato donato un talento enorme e, probabilmente, troppo grande per lui, che ne aveva viste così tante da bambino da non essere poi mai stato in grado di dimenticare crescendo. Quando, giunti all’ultima pagina di Not a game, si va a rivedere quella conferenza stampa del 2002, il divertimento con cui la si era osservata e ascoltata la prima volta non c’è più. E si vede finalmente l’anima dietro la maschera, il dolore affogato in alcol e parole, il tentativo di un uomo di evitare il baratro pur senza mai fermarsi. E così si comprende davvero perché, alla fine, non ha potuto fare altro che caderci dentro.

Perché leggere Not a game di Kent Babb:

perché è un’opera di alto giornalismo in grado di raccontare in maniera esemplare la vita di uno dei più grandi giocatori di basket della storia, mettendo davanti a tutto l’uomo e non la stella.


Titolo: Not a game
Autore: Kent Babb
Anno: 2020
Editore: 66thand2nd
Pagine: 336

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