Bryant raccontato da un amico d’infanzia

Il mio Kobe di Christopher Goldman Ward è un libro adatto a tutti, anche a chi non segue abitualmente lo sport. Racconta un grande atleta morto a soli 41 anni, il giocatore di basket Kobe Bryant. Ma non è classificabile come un semplice libro di sport, perché più che di pallacanestro parla di un profondo legame di amicizia, quello tra l’autore (Goldman Ward) e il cestista. I due si sono conosciuti da piccoli in Italia, a Reggio Emilia, città in cui il padre di Bryant, Joe, ha giocato (sempre a basket) per tre anni, dal 1989 al 1991. In precedenza, Joe Bryant aveva vestito anche le canotte di Rieti (1984-1986), Reggio Calabria (’86-‘87) e Pistoia (’87-’89), dopo aver militato per quasi un decennio nella NBA (dal 1975 al 1984). I suoi figli sono dunque cresciuti nel nostro paese e infatti Kobe, che poi è diventato una star leggendaria, non ha mai smesso di parlare bene l’italiano. Gli anni trascorsi da noi hanno lasciato segni profondi dentro di lui.

Radice europea.

A livello sportivo, perché Bryant ha potuto imparare la tecnica curatissima del basket europeo, sommandola all’atletismo tipico di molti atleti afroamericani come lui. Ma anche da un punto di vista personale: è un po’ come se la radice italiana di Kobe abbia rappresentato la sua parte più “umana”. Una volta tornato negli USA, dov’era nato nel 1978, Bryant ha iniziato la sua scalata verso il successo. È diventato un giocatore di alto livello, poi un vincente e poi anche un simbolo, il Black Mamba: un serpente tra i più velenosi al mondo. Questo era Kobe sul campo di gioco: un’arma letale, un campione con un solo obiettivo: vincere, ancora e sempre. Sulle orme del campione per eccellenza, Michael Jordan, e forse anche oltre. Questo processo lo ha allontanato dalla gente comune rendendolo una celebrità mondiale, una di quelle persone che tutti hanno in mente ma che nessuno può veramente avvicinare.

Delicatezza.

Nessuno a parte… un “semplice” compagno d’infanzia come Christopher Goldman Ward, anche lui figlio di padre americano trapiantato in Italia. Ed anche lui promettente giocatore di basket in quel di Reggio Emilia, prima di diventare architetto. Nel corso degli anni lui e Bryant, cresciuti insieme a pane a pallacanestro, hanno smesso di frequentarsi regolarmente ma non di cercarsi, trovarsi, raccontarsi. Con il suo vecchio amico Christopher, Kobe poteva smettere di essere il Black Mamba e tornare una persona “normale”, se così si può dire. Goldman Ward può dunque mostrarci un altro Bryant: non quello cui siamo abituati, quello di tutti e di nessuno, ma il “suo” personale, più giovane e (forse) spensierato. Lo fa con sincerità ma anche con delicatezza, dando l’impressione di voler condividere ma al contempo custodire al meglio quei ricordi così preziosi. Per questo gli aneddoti non mancano ma nemmeno abbondano.

Protagonisti.

Il libro si legge in fretta, anche perché i capitoli (trenta) sono molto brevi, ed è scritto in maniera semplice (alla portata di tutti, come si diceva) ma incisiva, con un’apprezzabile impronta personale. L’autore parla di Kobe ma inevitabilmente anche di se stesso, cosicché i protagonisti restano sempre due. Insieme, il grande campione e il grande amico ci offrono un acquerello del loro rapporto forgiato nel basket, ma rimbalzato molto più in là.

Perché leggere Il mio Kobe di Christopher Goldman Ward:

perché racconta un periodo poco (o per niente) conosciuto della vita di Bryant; per tornare adolescenti insieme a lui e all’autore. 


Titolo: Il mio Kobe
Autore: Christopher Goldman Ward
Editore: Baldini+Castoldi
Anno: 2022
Pagine: 158

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