Chiacchierata con il “Poz” sulla sua autobiografia Clamoroso

Gianmarco Pozzecco è uno dei principali volti del basket italiano: prima da giocatore, con le maglie di Livorno, Varese, Fortitudo Bologna e Capo d’Orlando, ed in seguito come coach, sempre di Varese e della Fortitudo, di Capo d’Orlando e attualmente della Dinamo Sassari, ha scritto grandissime imprese cestistiche. Protagonista centrale dello scudetto della stella dei Roosters Varese nel 1999 e dell’argento olimpico della nostra ItalBasket nel 2004 ad Atene, Pozzecco ha da poco pubblicato con Mondadori la sua biografia, Clamoroso, scritta assieme allo scrittore Filippo Venturi. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente e con lui abbiamo chiacchierato sul suo libro e su tanto altro inerente la pallacanestro.

Come è nata l’idea del libro?
«La prima volta che ho iniziato a scrivere la mia biografia era il 1995 e giocavo a Varese, pensai di scriverla con Giancarlo Pigionatti, giornalista locale, in quanto lui era la persona adatta perché è folle come me, scrive bene e mi conosceva altrettanto bene. Tutte queste caratteristiche erano l’ideale per accompagnarmi nella stesura del libro. Il problema è che essendo entrambi troppo folli non abbiamo avuto la costanza per finirlo. Poi quando sono andato in Fortitudo la Mondadori mi aveva contattato, ma ero in un periodo dove avevo tante cose da fare e declinai. Ci provai un’altra volta quando ero in Croazia assieme al giornalista Stefano Benzoni, ma anche lì non se ne fece poi nulla perché la casa editrice voleva che il libro fosse scritto da uno scrittore e non da un giornalista in quanto, secondo l’opinione attuale, le biografie devono essere scritte da uno scrittore come con Ibrahimovic e Agassi. Alla fine il mio amico Claudio Valdisserri mi ha segnalato Filippo Venturi per scrivere la mia biografia. Mi ha dato da leggere un suo libro che mi era piaciuto. Lui è perfetto perché è uno scrittore molto appassionato di pallacanestro. La casa editrice Mondadori è quella che in fin dei conti ha chiuso un po’ il cerchio perché mi ha dato la possibilità di dedicarsi con costanza al libro».

Oltre a Varese, che storia di basket italiano da te vissuta meriterebbe di essere raccontata?
«Direi la mia Orlandina che ho allenato nella stagione 2013-2014 con giocatori come Basile, Soragna e Nicevic. Eravamo una squadra di disperati. Quell’anno il GM era Gianmaria Vacirca, persona splendida e disponibile, ed ho avuto l’opportunità di allenare tre grandi campioni come quelli citati. Il GM voleva organizzare una troupe che ci seguisse tutto l’anno, purtroppo non siamo riusciti a farlo ma dal mio punto di vista avrebbe generato un successo enorme perché eravamo belli e vincenti. È stata un’annata fantastica conclusa con la promozione in serie A in virtù del fallimento di Siena. Il primo discorso che feci ai tre da allenatore era che, non essendo più loro compagno di squadra, dovevano darmi del lei. Soragna si disse d’accordo con la proposta manifestandolo con queste parole: “Ha perfettamente ragione quindi Gianmarco lei può andare a fare in culo!”. Succedevano tante cose spontanee: Basile che entrava in ufficio e mi rimproverava su come facessi l’allenatore. Era tutto vissuto con grande schiettezza. Noi di solito ci allenavamo una volta al giorno dalle 10 alle 12, Basile mi chiedeva di farlo tutti i giorni tranne al giovedì perché lui quel giorno andava a pescare. Un giorno si presentò con un dito squarciato perché, mentre stava pescando, si era infilzato con l’amo. Per fortuna non era nulla di grave perché provate a pensare a me che in sala stampa dovevo giustificare l’assenza di Basile per un incidente del genere. Ecco questi sono solo alcuni esempi per raccontare quell’anno lì con Capo d’Orlando».

Secondo te come mai sei ritenuto un giocatore universale che in fin dei conti è sempre piaciuto a tutti?
«Parto con un aneddoto che per me è significativo per rispondere. Quando sono andato a giocare a Cantù l’anno del mio addio al basket con Capo d’Orlando, prima della partita ci siamo fermati ad un bar perché il nostro coach, Meo Sacchetti, doveva comprare dei sigari. Lì ho incontrato dei tifosi canturini che, dopo essere saliti sul pullman della squadra per cercarmi, mi hanno detto che ci sarebbe stata una sorpresa per me al termine della partita. Nonostante ci fosse sempre stato grande rispetto, non capivo se fosse una minaccia o una bella cosa. Poi sono arrivato al palazzetto e la curva ha srotolato lo striscione con scritto «Un saluto al nostro miglior peggior nemico»: quella era la sorpresa. Secondo me è vero che un ragazzino inizia a fare dello sport per poter competere e vincere, ma non c’è solo quello».

«Mi piace pensare che ci siano due motivi per cui la gente mi vuol bene: il primo è abbastanza banale, ma veritiero: io ho una conformazione fisica comune a qualsiasi essere umano. La pallacanestro è per certi versi uno sport “razzista”, in quanto offre vantaggio alle persone alte. Molto spesso chi viene a vedere le partite al palazzetto è appassionato, ma non è riuscito a giocare a pallacanestro proprio per problemi con l’altezza. Io rappresento un po’ la loro rivincita perché sono la dimostrazione che anche in un mondo di giganti un nanetto può dire la sua. Quindi la conformazione fisica mi ha anche attirato un po’ di simpatie perché è normale che nel mondo dello sport si tifi per il più debole o per il più povero».

«L’altra motivazione è quella a cui sono ancora più affezionato. Io credo che nella testa dei tifosi avversari, soprattutto di quelli di Cantù, c’è sempre stato questo pensiero: “se avesse giocato per noi, lo avremmo amato”. Io ho sempre giocato per la maglia che indosso. Faccio un esempio: il giocatore che passa dall’Inter al Milan fa un torto ad entrambe perché i primi si sentono traditi, ma i secondi pensano che un domani potrà tradire anche il Milan. Io ero ad un passo dal firmare con la Virtus Bologna e mi sono sempre chiesto come è potuto passarmi nella testa di andare dall’altra sponda di Bologna».

«Nel libro dico che sono un’aziendalista che è un termine palesemente brutto perché sembra un termine legato ad un disinteresse. Io invece sono un’aziendalista, ma con sentimento. Nel mondo dello sport tutti hanno una componente emotiva condizionante, in quanto vivi delle emozioni bellissime sia quando vinci che quando perdi».

Qual è stato il tuo più grande rammarico in carriera?
«Il più grande rammarico è non essere riuscito a giocare in NBA: l’unica vera cosa che ti cambia la vita nel basket. Io ho giocato al Khimki ad alto livello europeo e a Capo d’Orlando ma, a parte alcuni benefit, non è che la differenza fosse così marcata. L’unico cambiamento epocale che un giocatore di pallacanestro può vivere è andare a giocare in NBA. Il CSKA Mosca, l’apice del lusso del basket europeo, e Houston non sono nemmeno altamente paragonabili da loro. L’NBA è il massimo che puoi raggiungere come ambizione cestistica».

Il miglior quintetto con cui hai giocato?
«Meneghin da ala piccola, Basile da guardia, io, chiaramente, Smodiš da 4 e come centro Sasha Volkov. Questi li ho scelti anche perché sono persone con cui mi sento spesso. Invece i più forti in assoluto con cui ho giocato sono stati Komazec e Michael Ray Richardson. Richardson è il giocatore di più talento con cui ho giocato e Komazec era una macchina da punti impressionante».

Che libri sportivi consiglieresti?
«Io sono affascinato dalle persone stravaganti e quindi non posso non citare la biografia di George Best. Uno che dice «Ho speso molti soldi per alcol, ragazze e macchine veloci. Il resto l’ho sperperato» è un genio. Mi è piaciuto molto il libro di Bobo Vieri perché ho avuto la fortuna di conoscerlo ed è davvero simpatico. Poi ho letto le storie scritte, che già conoscevo, con la sua voce; Bobo è una persona che stimo molto e dotato di una personalità pazzesca. Invece non mi ha convinto per nulla il libro di Agassi perché uno che odia lo sport, seppur con tutte le attenuanti possibili, è agli antipodi dal mio libro che cerca invece di emanare entusiasmo. La stessa Sharapova, di cui ho letto il libro, è, assieme a Jordan, Bubka, Agassi, Bryant, una di quegli sportivi che sono ossessionati dalla vittoria. È meglio essere Jordan, e vivere una vita rovinata dall’ossessione, o essere Pippen e Rodman ed avere una vita di cui sei follemente innamorato? Io preferisco aver vissuto una parte della vita da George Best piuttosto che da Agassi. La cosa più difficile nella vita è avere equilibrio ed io, presuntuosamente, penso nella mia vita di averlo raggiunto».


Per leggere la recensione di Clamoroso, clicca qui.


Titolo: Clamoroso. La mia vita da immarcabile
Autore: Gianmarco Pozzecco con Filippo Venturi
Editore: Mondadori
Anno: 2020
Pagine: 271

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