Intervista a Alessandro Ruta
Chiacchierata con l’autore di Miti e leggende del calcio basco
Alessandro Boa Ruta è un esperto di gaming, fondatore di Cardplayer Italia, e collaboratore de La Gazzetta dello Sport. Nel 2013, in formato ebook, è uscito per Book Sprint Edizioni il suo Confessioni di un milanista; nel 2018 per Urbone Publishing ha scritto Miti e leggende del calcio basco.
Come mai un libro sul calcio basco? Da dove nasce quest’interesse?
«Ormai da tre anni e mezzo mi sono trasferito da Milano a un piccolo paese in provincia di Bilbao (Otxandio), anche se già da prima questa terra e le sue storie mi avevano sempre incuriosito, per mille motivi. Il calcio basco è per larga parte del secolo scorso sinonimo di “calcio spagnolo” tout court: alcune parole del gergo basco, poi, sono diventate internazionali. Pensa a Pichichi, che è il termine che si dà al capocannoniere, che viene dall’ex calciatore dell’Athletic, morto giovanissimo. O il Premio Zarra, che si dà al miglior attaccante spagnolo: viene da Telmo Zarra, altro leggendario centravanti bilbaino. Il primo gol della nazionale spagnola l’ha segnato un basco, a lungo la Roja è stata una specie di selezione di Euskal Herria: quindi parliamo della spina dorsale del futbol. Poi che i Paesi Baschi siano un posto speciale non sarò certo l’unico a dirlo: lingua, tradizioni, folklore, passione, hombres (y mujeres) verticales, c’è un po’ di tutto».
Nel 2019 è ancora attuale una scelta come quella dell’Athletic Bilbao di schierare solo giocatori baschi?
«Non devono essere baschi, ma formati in un club basco: altrimenti non si spiegherebbe Laporte, che è francesissimo ma ha disputato le giovanili prima all’Aviron di Bayonne (paese basco francese) e poi al Basconia di Basauri, che è un po’ la terza squadra dell’Athletic. Tornando a noi, la scelta non solo è attuale, ma è assolutamente rivoluzionaria e controcorrente: in un calcio ormai in balia di “atleti-azienda”, magari posseduti in parte da fondi di investimento poco trasparenti, comporre un blocco di enfants du pays, gente del territorio, è il massimo dell’anticonformismo. Come per il vino, naturalmente, ci sono annate buone e meno buone, ma anche nei momenti bui la soluzione è ripartire sempre da casa, dal vivaio: che nel caso dell’Athletic è sterminato, quindi con un pizzico di fortuna la barca può risalire la china senza per forza spendere caterve di milioni. Sorrido facendo il paragone con l’Italia, dove la maggioranza delle squadre, anche di medio-basso livello, alla prima “botta” di infortuni va subito a cercare qualche svincolato bollito, magari strapagandolo, invece di valorizzare ragazzi del vivaio. Non solo all’Athletic, ma sempre più spesso anche Real Sociedad, Alavés e Osasuna lanciano senza paura i loro giovani, anche se non sono fenomeni: i tifosi apprezzano molto questa strategia».
Qual è la storia a cui sei più affezionato? Perchè?
«A tutte, perché è stato come fare un lungo viaggio in grande compagnia. Amo molto la categoria dei “perdenti”, quindi non nego che la vicenda di Gorostiza, il “George Best basco”, è stata quella che mi ha colpito di più, anche per i risvolti storici della faccenda (Guerra Civile spagnola, ad esempio). Trovatemi voi un altro ex fenomeno, un altro ex calciatore clamoroso, che finisca in un ospizio totalmente in rovina, dimenticato da tutti. In epoca più recente devo dire che Guerrero è uno che avrei voluto alla mia squadra del cuore (il Milan), quando era al massimo della forma: oggi probabilmente varrebbe 150 milioni di euro, ma il suo legarsi a vita all’Athletic ha fatto scuola. Anche l’ex Lehendakari, primo ministro, Agirre, pur essendo stato il più importante politico basco del Novecento è finito in disgrazia, in esilio: poteva fare il calciatore, ha scelto un’altra strada, e ha istituito la “Nazionale di Euzkadi”, spedita in giro per il mondo anche a fini politici. Però ciascun personaggio nel libro ha una sua peculiarità speciale».
Quale a tuo parere il più grande calciatore basco? E la più grande partita?
«Nella storia, secondo me, in rapporto a bravura tecnica, carisma, vittorie ottenute e classe in campo e fuori, nessuno meglio di Xabi Alonso. Che fosse un giocatore speciale lo si vedeva già quando a ventun anni dominava nel centrocampo della Real Sociedad che quasi vinse la Liga davanti al Real Madrid di Ronaldo e degli altri Galacticos. Poi ha dimostrato il suo valore anche al Liverpool, al Real Madrid e in Nazionale. Quasi alla pari, un filino più sotto, ma proprio un “Chopo” Iribar: uno davanti al quale bisognerebbe sempre levarsi il cappello. Purtroppo non ha vinto tanto come Xabi Alonso, ma insomma, con quel carisma ha segnato un’epoca. Non a caso lo paragonano a Zoff, suo quasi-coetaneo e collega».
«Tra le partite, come grandezza e importanza nessuna potrà mai eguagliare il celeberrimo “derby dell’Ikurrina”: Real Sociedad-Athletic del 5 dicembre 1976, i due capitani, Kortabarria e Iribar, che entrano in campo reggendo la bandiera dei Paesi Baschi resa illegale dal regime franchista. Una comunione d’intenti che, stando a chi c’era quel giorno al vecchio Atocha, “metteva i brividi”. Per la cronaca finì 5-0 per la Real. Altre partite memorabili, senz’altro il pareggio di Gijón che portò alla Real Sociedad la prima Liga nel 1981, o il 2-0 dell’Alavés a San Siro nell’incredibile marcia verso la finale di Europa League, o in tempi recenti il 4-0 dell’Athletic al Barcellona in Supercoppa di Spagna con tripletta di Aduriz e gol da centrocampo di San José».
Come collochi l’elemento politico (indipendenza e rapporto con Madrid) all’interno della storia del calcio basco?
«È imprescindibile. L’indipendentismo basco peraltro risale veramente alla notte dei tempi: anzi, forse a Roncisvalle 792, a Carlo Magno che perde buona parte del suo esercito compreso il fidato Roland. Il futuro imperatore vuole passare di lì, ma trova dei pastori armati che lo annientano: stop, non rompeteci le scatole».
«La politica è, assieme allo sport (e al cibo), l’attività preferita della gente di qua: come ti ho già detto in precedenza, la storia basca è una storia di “persone verticali”, tutte d’un pezzo, disposte anche a “perdere” pur di essere in pace con se stesse. Tra questi, senza dubbio, spicca Kortabarria: capitano della Real Sociedad più forte di sempre, bi-campione di Spagna, dice no alla Nazionale perché lui proprio non se la sente di mettersi in piedi per quell’inno, la mano sul cuore e così via. Ed era veramente se non il più forte stopper del campionato, almeno il secondo o il terzo: immaginati Bonucci o Chiellini (nomi a caso, ma per rendere l’idea) che ripudiano la Nazionale per coerenza con le proprie idee politiche. Certo, è roba di quarant’anni fa, ma Susaeta (ne parlo nel libro) non è andato molto lontano, in tempi più recenti».
«Questo perché i Paesi Baschi, ma anche la Navarra, sono tra le regioni più ricche di Spagna, assieme alla Catalunya. Non solo economicamente, ma anche culturalmente. Madrid, purtroppo, paga secondo me il suo status di capitale “fittizia”: ok, il re è qui, il parlamento è qui, tutte le decisioni più importanti si prendono qui, ma se uno pensa alla Spagna non pensa affatto a Madrid. Ha in mente Siviglia, o comunque il caldo andaluso (mentre a Madrid puoi beccare delle belle serate sottozero, in inverno), ha in mente la movida delle isole, i colori di Barcellona, la corsa dei tori a Pamplona: nell’immaginario collettivo Madrid quasi non esiste, quando si parla di “Spagna”, come concetto. Penso sia un caso unico tra le capitali europee. Da qui, secondo la mia modestissima opinione, una sorta di atteggiamento sempre piuttosto vendicativo del centro, quindi della capitale, nei confronti della sua periferia più “ribelle”. A cui dice, “Caspita, ma vi ho dato molta autonomia, cosa volete di più?”. Verso altre periferie, meno ribelli, tipo Galizia (da dove veniva Franco e buona parte della classe dirigente del Partito Popolare) o Andalusia, l’atteggiamento è più rilassato».
Che ruolo ha, secondo te, la letteratura sportiva oggi?
«Penso sia fondamentale perché la cronaca sportiva, al contempo, perde ogni giorno più significato. Solo attraverso una grossa quantità di pagine, non esagerata, si può tornare a parlare di “epica” sportiva. Epica che con gli sportivi ridotti a testimonial di se stessi, che vivono in un continuo spot al presente, sta via via scomparendo. Vedo i giornali sportivi che arrancano, e mi dispiace, perché bisogna riempire spazi a volte parlando del nulla, o di cose già viste e masticate da tutto il mondo. Ma se uno scrive un libro racconta una storia, bella o brutta che sia, trova qualcosa di inedito, e le storie interessano sempre. Come quelle della casa editrice Urbone, che mi ha pubblicato per questo libro, che fa cultura raccontando storie non proprio mainstream, ma curiose e interessanti».
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Titolo: Miti e leggende del calcio basco
Autore: Alessandro Boa Ruta
Editore: Urbone Publishing
Anno: 2018
Pagine: 186