Intervista a Roberto Gotta
Chiacchierata con l’autore de Il mondo di Tom Brady
Roberto Gotta (Torino, 1964), giornalista, segue da una vita calcio inglese e sport americani. Ha pubblicato diversi libri, tra i quali Addio West Ham e Football&Texas, che hanno riscosso notevole successo tra gli appassionati. Grande esperto di football, ha seguito dal vivo ben 22 Super Bowl, vivendo in prima persona alcuni capitoli dell’epopea dei New England Patriots di Tom Brady. Partendo dalla sua esperienza ha scritto per Indiscreto il libro Il mondo di Tom Brady. Football e vita di un’icona americana, oggetto della nostra intervista
Tra tutti i personaggi e le storie che lo sport americano regala, scegliere di scrivere di Tom Brady, campione ultra-mediatizzato su cui si è già scritto di tutto, è strano, per non dire folle. Perché Tom Brady?
«Beh, su Brady si è detto tutto ma negli Stati Uniti, e non potevano certo essere alcuni articoli tirati via, o stereotipati, usciti in Italia a dissuadermi dall’idea. Alcuni di quegli articoli banali li ho scritti pure io, sia chiaro: quando ti danno 40 righe per descrivere un personaggio così complesso fai fatica a dire qualcosa di differente dai dati nudi e crudi, ovvero le vittorie, la moglie, eccetera.
L’idea del soggetto peraltro non è stata mia ma dell’editore Stefano Olivari, che sa stare al mondo più di me. Io non sono attratto dai vincenti (e sono scettico sul concetto stesso di vincenti o perdenti, in uno sport di squadra), mi intristiscono i carri del vincitore ma non sono neanche un sostenitore delle storie tragiche a tutti i costi: c’è un voyeurismo del ‘maledetto’ che non sopporto, un compiacimento nel raccontare, facendosi belli, storie di persone che hanno avuto o hanno problemi seri nella vita. Mi è capitato di incontrarne tante, quando seguivo da vicino il basket, e narrandole provavo angoscia, non la soddisfazione di svelare lati oscuri. Brady è stata una via di mezzo: un vincitore che però non è stato mai analizzato, da noi, con attenzione vera. Un vincitore che se non fosse stato assurdamente determinato sarebbe diventato non un perdente (già sapete cosa penso della suddivisione del mondo tra vincenti o perdenti) ma uno come tanti, magari molto frustrato come tanti».
Fin dalle prime pagine si avverte la sua volontà di sottolineare come Brady fosse tutto fuorché un predestinato. Si può dire che ha dichiarato guerra al classico «fin da bambino aveva le stimmate del campione»?
«Ho dichiarato guerra a quella e a tutte le frasi fatte fin da quando ero al liceo e nei temi di italiano sconvolgevo la professoressa con concetti non convenzionali (‘descrivi il luogo più bello di Bologna’ – e ce n’erano, prima che precipitasse nel degrado attuale – e io raccontai… la mia stanza, nella quale leggevo i miei libri e ascoltavo le dirette radiofoniche di partite di calcio inglese e sport americani, viaggiando a mille all’ora con la fantasia). Mi mettono tristezza i gol dell’ex, ‘la splendida cornice’, il buonismo ingannatore per cui a giugno tutti gli allenatori nuovi hanno ‘un’attenzione maniacale per i dettagli’ e – devo dirlo – mi irrita quasi tutto il linguaggio che viene utilizzato normalmente nella cronaca sportiva. E non per nulla non ho mai aspirato a lavorare in un quotidiano. Non fa per me la frenesia di scrivere cose che già il giorno dopo non valgono più, non fa per me il calcio del ‘oggi alle 15 parla Sarri’. Né potevo essere così presuntuoso da pensare di poter diventare editorialista, cioé opinionista/tuttologo. Quindi, riviste e libri, che hanno un respiro più ampio e permettono di non correre alla ricerca della frase fatta o sensazionalistica. Per tornare alla domanda, visto che sono partito per la tangente… è vero, Brady in varie fasi della sua vita ha avuto il dubbio di non essere all’altezza, soprattutto perché il mondo esterno a quel dubbio dava forza. E non aveva senso non riferire questa realtà e fingere che fosse un predestinato: non lo era».
La figura di Tom Brady è strettamente legata ai Patriots. Non si può pensare a quell’atleta senza pensare a quella squadra, e viceversa. Possiamo paragonare questo binomio a quello tra Michael Jordan e Chicago Bulls?
«Sì, totalmente, anche se si è sviluppato in tempi diversi e dunque in un mondo dominato e regolato dai social media. Esposizione pazzesca ma anche fascino minore, minore senso del mistero perché di Brady, grazie anche ad Instagram, conosciamo anche aspetti della vita privata, perlomeno quelli che vuole diffondere. Jordan viveva invece in un mondo con pochi sbocchi pubblici ed era molto geloso del suo modo di essere. Anche perché aveva una personalità forte e difficile e in allenamento diede un giorno un pugno ad un compagno di squadra. La cosa si seppe alcuni anni dopo, mentre oggi lo sapremmo tutti dopo mezz’ora, avremmo magari le immagini rubate dal video della sessione tecnica e nascerebbe un notevole scandalo. Però sul piano esteriore e della memoria futura il binomio è lo stesso, e spero che Brady non lo rovini chiudendo la carriera in un’altra squadra, come invece fece Jordan con i Washington Wizards o Joe Montana con i Kansas City Chiefs».
Non si può scrivere di Brady senza scrivere del suo coach Bill Belichick, e infatti ha dedicato alla sua figura ampio spazio. Sarebbero diventati quello che sono l’uno senza l’altro?
«Credo di no, anche se questo può essere dimostrato solo nel caso di Belichick, che da capo allenatore a Cleveland aveva avuto solo grane. Mentre in precedenza, da coach della difesa, aveva fatto cose eccezionali ai NY Giants. Aveva avuto grandi giocatori e li aveva fatti rendere al meglio, con scelte geniali, ma a Cleveland non aveva trovato il quarterback giusto e anzi si era scavato la fossa scegliendo di mandare via a metà dell’ultima stagione Bernie Kosar, amato dai tifosi locali. Probabilmente aveva visto giusto, ma con quella decisione si giocò tutto e fu quasi mandato via a furor di popolo. A New England il quarterback ideale l’ha trovato nel draft, senza nemmeno conoscerlo benissimo perché era arrivato pochi mesi prima, e i risultati si vedono. Brady invece avrebbe avuto altrettanto successo altrove? Sì, con un allenatore preparato e paziente, che non avesse badato al suo fisico non atletico ma alle sue doti di lettura delle situazioni e di analisi tattica.
Altra figura strettamente legata a Brady è quella di sua moglie, la supermodella brasiliana Gisele Bündchen. I due danno all’esterno l’impressione di essere una “famiglia Mulino Bianco”, certamente Tom pare dare alla famiglia un ruolo molto importante.
«È vero, e mi è piaciuto sottolinearlo perché di questi tempi sembra rivoluzionario avere una famiglia normale. Rivoluzionario per i media e i loro tormentoni, non per la maggioranza delle persone. Famiglia Mulino Bianco ma non perfetta, sia chiaro: Brady stesso si fidanzò con la Bundchen quando la sua ex fidanzata era in attesa di un bambino, che ora fa parte in pieno della vita del quarterback, e il padre del giocatore, Tom senior, a una conferenza di cattolici nel 2002 disse con un po’ di rammarico che fino a quel momento nessuno dei nipoti era nato all’interno di un matrimonio regolare. Però il Tom Brady che saluta spesso la mamma (reduce da un cancro che l’aveva colpita alcuni anni fa) alla fine di un’intervista è il Brady che interpreta – senza volerlo – alla perfezione un modello di persona e di americano che sta scomparendo: quello che mette al primo posto i doveri, al secondo i diritti e molto più in basso le pretese».
Crede che il suo libro possa interessare anche gli appassionati di football, coloro che conoscono (o credono di conoscere) tutto di Brady, oppure è più adatto per un pubblico a digiuno di football?
«Beh, non ho mai scritto un libro solo per appassionati, che sono pochi. E non mi interessa creare una nicchia che parla un linguaggio sconosciuto al resto del mondo. Non per nulla Addio West Ham, in cui racconto l’ultimo anno dello stadio storico della squadra, anno vissuto da abbonato, è stato definito da un collega inglese ‘un trattato di sociologia dell’East London’, prima ancora che un libro di calcio. Per me è inconcepibile parlare solo di sport senza riferimenti esterni, perlomeno se si vogliono spiegare un organismo in carne ed ossa come un atleta e un organismo che vive attraverso le persone come è un club, specialmente se molto radicato nel territorio. Il Brady californiano che ha con l’acqua (della Baia) un rapporto fraterno è quello che quando va in Minnesota dai parenti della madre si tuffa in un lago gelido senza pensarci, e anche questo fa parte della sua formazione. Mai, mai vorrei raccontare un evento o un atleta isolati dal resto della realtà: noi in Italia quando c’è Verona-Napoli sappiamo che è una partita che ha una precisa collocazione geografica e sociale, mentre troppe volte si tratta lo sport di altre nazioni come se – espressione che uso spesso – ‘galleggiasse’ in un contesto neutro. E invece no. Invece, ancor più in nazioni gigantesche come gli USA, bisogna assolutamente contestualizzare e menzionare gli elementi esterni, le influenze, e questi sono gli aspetti che possono permettere la lettura anche a non appassionati o non esperti. Anche le menzioni più note e banali: che Brady abitasse a pochi chilometri dal centro tecnico dei San Francisco 49ers e tifasse per loro e Joe Montana lo sanno tutti, ma ribadirlo vuol dire appunto collocare un ambito sportivo in un contesto geografico e adeguarlo ai tempi, visto che tra anni Ottanta e Novanta i 49ers erano all’avanguardia».
Un libro come il suo ha certamente comportato mesi se non anni di lavoro. E visto il risultato ci permettiamo di dire che avrebbe meritato risalto maggiore sui media sportivi, e magari – in fase di produzione – pure l’attenzione di qualche casa editrice con maggior peso, soprattutto alla luce del successo delle sue precedenti pubblicazioni. La infastidisce il fatto che sia così difficile farsi spazio sulla ribalta editoriale nazionale?
«Mi infastidisce moltissimo… ma al tempo stesso non mi sorprende, dunque sono stupido io a prendermela. So da anni che non conta tanto la qualità dell’opera – e vi ringrazio del complimento, ribadendo che Addio West Ham ha una qualità superiore – ma la notorietà dell’autore, specialmente se è personalità televisiva e sa cogliere le correnti di opinione più di moda e politicamente corrette. O talmente scorrette da fare clamore. Ci sono infiniti esempi di questo. Senza considerare che molti autori famosi i libri neppure li scrivono direttamente, ma questo è un altro discorso, pessimo pure quello. Però attenzione, menzionate la ‘fase di produzione’, ma non ci sarebbe stata fase se non avessi avuto l’incarico da Indiscreto. Quindi per forza di cose la ‘fase di produzione’ non poteva suscitare l’attenzione di nessuno, dato che nessuno sapeva che io ci stessi lavorando, se non il mio editore. Certo, mi infastidisce non vedere il libro nelle librerie di aeroporti, stazioni e centri commerciali, dove invece scorgo spesso opere un po’ così di argomenti tipo NBA, che è la Moda degli ultimi anni, ma è l’altro lato della medaglia dell’avere un editore serio, affidabile, paziente (sono in perenne ritardo sulla scrittura) come Olivari. Che non cambierei con nessuno, e non solo perché nessuno comunque mi chiederebbe di farlo».
Da ultimo, cosa può insegnare la storia di Tom Brady?
«Beh, tutto e niente. Può insegnare che una tenacia allucinante può portare a grandi risultati, ma quanti di noi hanno avuto una grinta simile, magari meno esposta al pubblico, e alla fine non hanno ottenuto nulla? Anche per questo ho voluto un libro anti-enfatico: quella di Brady è una figura unica, che può ispirare ammirazione ma è anche difficilmente imitabile. Insomma, in USA a volte c’è chi in caso di dubbio utilizza l’acronimo WWJD (What Would Jesus Do? Cosa farebbe Gesù in questa situazione?) per regolarsi, ma vedo dura passare al “What Would Brady Do?”».
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Titolo: Il mondo di Tom Brady. Football e vita di un’icona americana.
Autore: Roberto Gotta
Editore: Indiscreto
Anno: 2019
Pagine: 198