Intervista a Riccardo Pratesi
Chiacchierata con l’autore di 30 su 30. Viaggio nelle arene NBA
Riccardo Pratesi, senese classe ’75, attualmente collabora con La Gazzetta dello Sport per il mondo sportivo a stelle e strisce (NBA, NCAA e NFL su tutti) ed è stato collaboratore per Sky Sport. A fine 2017 per Libreria dello Sport è uscito il suo 30 su 30. Viaggio nelle arene NBA. I retroscena nelle parole dei protagonisti.
Dal mio punto di vista, il libro è un bell’esempio di letteratura da viaggio; ovvero quei testi, scritti da autori dell’800, per raccontare attraverso i loro occhi un mondo nuovo e affascinante. Come nasce un libro del genere?
«Nasce come esigenza, nata spontaneamente dopo 24 mesi da residente Usa. Ho sentito il “bisogno” di condividere la quotidianità americana e soprattutto il modo di vivere e d’intendere lo sport che gli appassionati italiani ricevono filtrato da internet o dai social network, e spesso con la prospettiva americana. Già la mia scelta di dimettermi da firma e inviato di Gazzetta, pur di raccontare “per davvero” toccandola con mano la realtà dei miei da sempre amati sport Usa andava verso quella direzione, anche se forse non me n’ero subito reso conto. La consapevolezza dunque del desiderio di raccontare con il valore aggiunto dell’insider media, con accesso a spogliatoi, allenamenti, interviste one on one, ma al contempo con la naturalezza del residente medio americano. Ho voluto vivere cosi, per immergermi completamente nel contesto che volevo raccontare. Niente hotel 5 stelle, come succedeva quando venivo negli Usa da giornalista inviato Gazzetta, niente fanatismi da tifoso col paraocchi che idolatra campioni e colleghi che non conosce. Piuttosto la fotografia di uno spaccato reale, con gli uomini raccontati dietro alla figurina del campione. Un libro un po’ diario di viaggio, tra San Antonio, Sacramento e Minneapolis, tre realtà profondamente diverse della composita America, scelte non a caso per farsi un’idea completa, e un po’ cronaca di un’America ben diversa da quella di New York o Los Angeles. Dei 42 dei 50 Stati statunitensi che ho avuto l’opportunità di visitare, addirittura tre da residente che pagava le tasse negli Usa».
Il sottotitolo del tuo libro recita «viaggio nelle arene della NBA»: qual è l’arena a cui sei più affezionato? E quale quella che si porta dietro il retroscena più pazzo e curioso?
«Le quattro, anzi le cinque, vissute nella quotidianità da beatwriter di Spurs, Kings, Warriors e Wolves, da giornalista accreditato, con posto in tribuna stampa garantito per tutte le partite interne delle squadre di casa. Sono andato in America senza riferimenti o punti d’appoggio sul territorio. Per cui per me le Arene sono diventate casa e bottega. Ci ho passato tanto tempo, quasi quanto quello nei rispettivi appartamenti affittati in loco. L’AT&T Center di San Antonio, anzitutto, cronologicamente, raggiunto col Maggiolone: abitavo downtown a 10′ a piedi dall’Alamo. Poi la Sleep Train Arena, o Arena dei materassi, dallo sponsor, come mi sono permesso il lusso di chiamarla e scriverne. Quindi il Golden One Center, la nuovissima Arena di Sacramento che ha sostituito la precedente nel mio secondo anno da toscano naturalizzato californiano…Dell’Arena dei Materassi i Kings mi hanno consegnato come ricordo una mattonella riprodotta col mio numero di posto in tribuna stampa… Poi l’Oracle Arena dei Warriors, la tana dei campioni dove li ho visti vincere (e pure perdere) alle Finals un titolo Nba. Infine il Target Center di Minneapolis (il dettaglio nell’edizione aggiornata ebook di 30 su 30) raggiunto d’inverno, a -15 di temperatura di media, tramite la Skyway, il reticolati di tunnel coperti all’aperto, downtown, per evitare neve e gelo. Il retroscena curioso? Per evitare l’infernale traffico californiano dovevo mettermi alla guida del Maggiolone rosso alle 11 del mattino per le partite serali. Arrivavo a Oakland per pranzo, mangiavo in un diner vicino all’Arena e poi mi presentavo con enorme anticipo. Ma era l’unico modo per non impazzire il pomeriggio, rischiando il ritardo».
Nel calcio spesso si sente parlare di 12esimo uomo in campo (pensiamo al Borussia Dortmund o al Boca Juniors, ma anche ai palazzetti delle squadre greche in Eurolega per restare in tema basket): con tutte le differenze del caso, c’è in NBA un esempio analogo?
«Sono stato a casa del Borussia per lavoro: non malissimo, no….Direi che OKC e Boston hanno il fattore campo più affascinante. Dai Thunder c’è un tifo universitario, un casino infernale. Da Boston oltre al sostegno del pubblico c’è la competenza straordinaria degli appassionati».
Il capitolo su Chicago, con le storie di Rose e Butler (soprattutto alla luce delle performance attuali del primo), è la perfetta traduzione di un “cosa sarebbe stato se…”. Nel tuo peregrinare per le arene NBA chi è il giocatore che ti ha più impressionato? E c’è qualcuno che pensavi avrebbe potuto fare molto di più di quello che poi ha fatto?
«Westbrook. Un atleta irreale. Un’ombra di energia sempre in movimento, che non si risparmia mai. Gioca con la bava alla bocca. Tra l’altro, al di la delle discutibili scelte cestistiche sul parquet, in spogliatoio leader vero, amatissimo dai compagni di squadra, ben oltre quanto appare da tv/internet/narrativa on line. Poi Rondo. Beautiful mind di pallacanestro. Uno studente del gioco incredibile, con visioni di passaggio paradisiache. Agonista feroce, capace di alzare il livello del gioco quando conta di più. E mentore dei giovani in spogliatoio, didattico. Allenatore in campo. La delusione è finora stata Okafor. Straordinario lungo offensivo, con mani delicate, si è perso tra guai fisici, difesa da torero e atteggiamenti poco maturi. Ma non mi sono ancora arreso, su di lui».
Con Portland si tocca, a mio modo di vedere, l’apice della sfortuna cercata (vedi le non scelte di Hakeem e Durant) e subita (vedasi Oden e Brandon Roy). Se potessi cambiare una scelta per migliorare una sola franchigia NBA cosa faresti e perché?
«Con la bacchetta magica avrei affidato Minnesota a Coach Messina piuttosto che a Thibodeau. Vi stupireste di quanto forti i Wolves sarebbero potuti diventare».
Secondo te che ruolo ha e può avere oggi la letteratura sportiva?
«Nell’era del raccontato per sentito dire, dei social sui quali troppo spesso ottiene credito chi urla (e offende) di più, credo possa essere la garanzia di uno specchio reale regalato al lettore in un ambito, lo sport, che tocca corde emozionali, oltre che fattuali. Lo sport infatti permette di sognare: saperlo raccontare con bello scrivere, autenticità e passione garantisce al lettore un tuffo in un mondo, a maggior ragione quello americano per il lettore italiano, affascinante e coreografico. Io amo la letteratura fantasy. Ecco, non è il caso di spacciare gli sport Usa per quelli che non sono facendo del fantasy arrogante. Ci vuole l’umiltà di andare, vedere, poi raccontare senza agende personali. Il lettore merita di più di un racconto superficiale fatto di scopiazzature on line riverniciate da sacerdoti virtuali del verbo. Poi mi piange il cuore a vedere che la letteratura sportiva in Italia è soprattutto biografie. Io potevo vendere il triplo scrivendo la biografia di Duncan e Ginobili, avendoli seguiti 12 mesi passo passo. Stessa cosa con Belinelli, Messina. O Curry e Durant. E invece credo ci debba essere da parte degli autori la voglia, il desiderio di fare un passo in più, di non limitarsi al compitino. Di offrire un servizio migliore al lettore. Che ha le sue colpe, quando si accontenta di quello che gli viene offerto, senza spirito critico. Per questo sono felice quando leggo le tante recensioni positive dei lettori di 30su30. L’enorme grado di soddisfazione, la soddisfazione di aver letto qualcosa di diverso e unico. L’anima dei campioni è l’anima dello sport, il contesto sociale in cui si affermano chiave indispensabile per capirne vizi e virtù. Chiedete, anzi pretendete, vi vengano raccontati entrambi».
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Titolo: 30 su 30. Viaggio nelle arene NBA
Autore: Riccardo Pratesi
Editore: Libreria dello Sport
Anno: 2017
Pagine: 292